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ZERO.40 | intervista a TEO HO

Zero.40 è la nuova rubrica del Il silenzio del cantautore.

I conversatori si siedono in un angolo, all’interno del Korova milk bar, il tempo di bere una birra media: 0.40 cl.

Un piccolo viaggio fatto di parole per conoscere meglio gli artisti che hanno partecipato a questa rassegna.

Rubrica a cura di Carlo Casaburi.

Matteo Bosco, in arte Teo Ho, è un ragazzo friulano che non ama definirsi musicista ma cantastorie. I suoi pezzi sono composti da pochi strumenti essenziali: la chitarra, l’armonica, e la sua voce.

Racconta storie. Lo fa guardandosi intorno, assorbendo emozioni dalle persone con cui parla per strada e, in queste storie, nonostante combatta per non farlo, inserisce sempre una parte di sé.

I Gatti Di Lenin è il suo primo lavoro. L’album è ricco di versi in grado di portarti, mano nella mano, nel suo immaginario che però ha radici nella nostra quotidianità.

Matteo, che porta un cappello colorato in testa, è un viaggiatore delle emozioni, un esploratore dei luoghi che riempiono le nostre esperienze di cui lui, nel modo più sincero possibile, si fa abile novellatore.

Ci sediamo al primo piano del Korova Milk Bar, accendo il registratore, e cominciamo l’intervista.

Ciao, come è nato il nome Teo Ho?

La ringrazio per la domanda (sorride). Allora… Teo Ho è nato perché io vivevo ancora a Milano, e suonavo soltanto per strada. Una mia amica dal Friuli mi chiama per dirmi che mi ha trovato una data ad Udine ma le serve un nome d’arte per la locandina. Io non avevo mai pensato ad un nome d’arte, ma ero appena tornato dal Vietnam dove Hồ Chí Minh viene chiamato Zio Ho e da questo mi è venuto in mente Teo Ho.

Teo Ho e Matteo Bosco sono la stessa persona o hanno caratteristiche diverse?

Secondo me Teo Ho è la maschera, inutile, dove Matteo Bosco si nasconde in modo quasi patetico. Forse perché non mi piace parlare di me nonostante, alla fine, nelle mie canzoni questo avviene.

E il cappello chi lo porta, Teo o Matteo?

Il cappello lo porta Teo.

Quando hai iniziato a suonare e quale è stato il tuo primo approccio alla musica?

Il mio primo approccio alla musica è stato da ascoltatore, e quindi precoce. Ricordo una chiara immagine di me che ascolto per la prima volta Un giorno di pioggia di De Gregori. Mi sconvolse. Una canzone che è, a mio parere, un capolavoro dove tre storie si fondono in una. Per quanto riguarda invece il mio approccio come musicista bisogna dire che io ho scritto versi per tantissimi anni. Da cinque o sei mi sono messo in strada a suonare, perché mi diverto di più. La molla forse è scattata però nel 2010 quando ho ascoltato l’album Canzoni da spiaggia deturpata. In quella occasione mi sono detto che dovevo farlo anche io. Dovevo iniziare, poi ho elaborato la cosa e l’ho fatto.

È cambiato qualcosa da quando hai iniziato ad ora?

È cambiato tantissimo l’approccio, la stesura dell’opera. C’è molto più rigore e impegno. Prima scrivevo versi solo quando avevo voglia di scriverli. Ora quando torno a casa dal lavoro mi metto a suonare. È cambiato molto anche perché c’è un impatto diverso nella persona…

Cosa intendi?

Nel senso… mentre una bella poesia può anche non essere letta spesso una brutta canzone viene ascoltata. Poi si può mediare, ma la musica è sicuramente un veicolo più potente.

Pensi che la musica abbia qualcosa in più rispetto ad altre forme di espressione e che riesca a farlo anche oggi?

Penso abbia qualcosa in meno rispetto alle altre forme di espressione. È bellissimo perché non ti dà punti di riferimento. Arriva e dici “che cazzo è?!”. Non sono uno di quelli che dice che oggi non c’è niente. Credo che la musica riesca a fare quello che fa in ogni momento perché è in grado di farlo. È interessante vedere come la musica non sia solo una cosa che fai e qualcun altro ascolta, ma è uno scambio, un percorso bilaterale, una comunicazione.

Cosa significa essere un musicista?

Non lo so, onestamente mi è capitato di pensarci ma non mi sento un musicista e non so rispondere. Mi piace trovare diverse forme di espressione. Per me oggi è questa. Essere un musicista, per come la vedo io, crea ansia, genera un sacco di responsabilità, anche per ciò che c’è stato prima, nel senso che quando si pensa alla musica si tende a focalizzarsi su grandi nomi, e quindi preferisco non definirmi musicista.

Come ti definisci?

Un cantautore. È diverso da chitarrista, è diverso da cantante ed è diverso da musicista. Anzi ti dirò di più, mi sento un cantastorie, quella è la figura che più si avvicina a me.

Parliamo del tuo primo lavoro: I gatti di Lenin. Dimmi qualcosa al riguardo.

Questo album condensa, essendo anche il primo album, anni di vita. Ci sono storie dove ho tentato di dare la voce a chi non ne ha. Sono dei racconti dove ho cercato di giocare con il linguaggio e, nonostante i trucchi, raccontano anche una parte di me.

​Come nascono le tue canzoni?

Mi piace molto guardare le situazioni. Dopo un po’ che le guardi sorgono delle emozioni così intense che non puoi fare a meno di raccontarle, e così nascono le canzoni. Almeno questa è l’idea, poi la stesura del pezzo richiede, almeno per me, una cura maniacale. Però l’idea nasce appunto dall’osservazione di ciò che ho intorno.

Quali sono i tuoi idoli musicali?

Potrei dirti che Dylan è una religione. De Gregori, poi segue una lista infinita, soprattutto nel cantautorato italiano. Artisti imprescindibili come De André, Claudio Lolli, Rino Gaetano…

Perché usi solo la chitarra e l’armonica?

Io della musica non so nulla, potevo anche suonare il citofono. Questi due strumenti mi danno la possibilità con il minore sforzo di esprimere qualcosa. E comunque, tornando al discorso di prima, è frutto anche di spirito di emulazione ai miei riferimenti. Nel primo disco, c’è da dire, è anche una scelta che ha dietro un ragionamento. Volevo inserire tutto quello che so fare, in modo sincero e immediato creando un’immagine che va oltre la melodia. Nei prossimi lavori vedremo di inserire anche altri strumenti.

Quale è il rapporto che ha la tua musica con la vita di tutti i giorni?

La vita di tutti i giorni è la mia musica. Uno dei miei crucci è non riuscire a scrivere una di quelle belle canzoni d’amore che tutti i cantautori hanno fatto almeno una volta, io non ci riesco. Non riesco a parlare di me. Ci provo e poi mi dico: “che cazzo ho scritto?!”

Quale è il tuo rapporto con chi ti segue, con il pubblico, soprattutto quando suoni?

Mi piace molto parlare con le persone, parte dei miei live consiste in questo. Cerco sempre di rendere partecipi le persone perché lo trovo fondamentale. Dico sempre che quando canto una canzone mi piace prendere chi ho davanti e portarlo nelle storie che sto cantando. Ho bisogno ci sia questo tipo di collaborazione, anche perché non sono Clapton.

Cosa pensi del panorama musicale di oggi?

Parlando soprattutto di quello italiano penso che sia onestamente molto vivo. Ascolto moltissimi artisti che trovo molto bravi. Mi viene in mente Lucio Corsi ma ce ne sono tantissimi, Brunori di qualche anno fa, Vasco Brondi, Appino… ce ne sono davvero molti. Chi non mi piace sono quegli artisti, magari quarantenni, che fanno elettro pop. Lo trovo finto, o almeno anacronistico. Non so, è una cosa mia. Trovo serva sempre una certa evoluzione.

Quale è il motore che ti spinge a scrivere?

Lo faccio da così tanto tempo che non so risponderti, se non lo facessi mi chiederei perché non lo sto facendo. Ho bisogno di scrivere. Ragionandoci sopra alla base di tutto c’è cosa leggo. Il Matteo lettore mi spinge sicuramente a scrivere.

 

Genova berretto di lana. Vorrei mi parlassi di questa canzone in particolare.

Ci sono frasi che mi sono rimaste impresse: “filosofi con i coltelli a rubare i colori, ti insegna a girare filmati col cielo già chiuso”, “moda di scarpe e pistole, la scuola col sangue alle guance” …

È l’unico pezzo politico del disco e parla del G8. Nasce dall’esperienza di una ragazza che conosco e che c’è stata. Io sono sempre reticente a spiegare i versi, preferisco che ognuno si faccia un’idea propria delle mie canzoni. Questa canzone è sicuramente una canzone carica di rabbia e speranza, parla di un argomento di cui forse non si discute più, nonostante sia importante.

Hai già un altro album in cantiere?

Ho dei pezzi nuovi in cantiere che a marzo ho intenzione di terminare, non sarò solo e quindi ci sarà un suono più ricco. Ci saranno le percussioni, gli effetti, il mix, di Matteo Dainese. Devo ammettere che questa cosa un po’ mi spaventa perché non vorrei che nasca qualcosa che non mi aspettavo, che nel sentire un pezzo rimanga in mente solo un motivetto. Ma il cambiamento, nonostante faccia paura, è fondamentale.

Oggi suoni a Il silenzio del cantautore, è una rassegna di musica totalmente in acustico, senza alcuna amplificazione, al naturale per ricondurre il cantautore alla sua origine ed autenticità. Una ricerca dell’essenza, sia per chi suona che per chi ascolta. Secondo te in cosa consiste questa essenza, se è importante perché lo è, e soprattutto qual è “l’essenza” di Teo Ho?

Secondo me non c’è una risposta esatta o precisa, ti posso dire che per me è la curiosità. Quando questa verrà meno, spero mai, sarà finito Teo Ho e anche Matteo Bosco.

A cosa brindiamo?

Al nostro incontro.

Cheers.

Cheers.

essenza d'artista - stephen lawrie the telescopes

Essenza d'artista, foto di Giacomo Marighelli

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