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ZERO.40 | intervista a RONCEA

Zero.40, rubrica de Il silenzio del cantautore.

I conversatori si siedono in un angolo, all’interno del locale, il tempo di bere una birra media: 0.40 cl.

Un piccolo viaggio fatto di parole per conoscere meglio gli artisti che hanno partecipato a questa rassegna.

Rubrica a cura di Carlo Casaburi.

Nicolas J. Roncea suona un folk intimo e sincero e una carriera alle spalle di tutto rispetto.
Si è esibito in quasi tutta Europa e ha aperto concerti per Arctic Monkeys, The National, Tunng, Marissa Nadler. I suoi primi album sono scritti in inglese e si agganciano allo stile al folk britannico e americano.

Ha un cuore da punk e un animo schivo che però ha dimenticato, o che forse ha deciso di conservare, in qualche cassetto vicino ad una lampada a forma di chitarra.

Oggi Nicolas è diventato Roncea, un ragazzo innamorato della musica che non ha più paura di infilare tra le note le proprie emozioni fregandosene di un giudizio esteriore. 
Tutto questo si può ascoltare nel suo ultimo disco, il suo primo in italiano, ormai al termine.

Con lui parliamo di intimità e di quanto sia importante ricordare che le cose per avere un valore devono essere soprattutto belle, e di come i musicisti, alle volte, possano diventare degli ottimi fotografi.

Nel presentare la tua musica, effettuando una piccola ricerca, mi sembra di aver letto in più di un’occasione la frase “Il folk intimo di Roncea”. Che cosa è questo folk intimo?

È una definizione che mi hanno dato ma una volta ricevutala mi ci sono ritrovato. Questo perché parte da una mia esigenza. Io vengo dal punk rock e le mie esperienze di band sono molto rumorose. Ascolto tutt’ora musica cattiva e, per vicissitudini di vita, avevo bisogno di uno spazio nuovo, mio, intimo. L’intimità è questa roba qua, il fatto che ti metti in cameretta, storia già sentita mille volte, prendi in mano una chitarra, inizi a scrivere le tue cose non pensando minimamente a creare un progetto e poi invece nasce. Fai un concerto, in acustico perché te lo chiede un amico, e vedendo una reazione positiva delle persone che ti ascoltano dici che potresti farlo di nuovo. Non mi sono più fermato.

Quindi questa intimità è un riscoprirsi in solitudine?

Sì, è un guardarsi. Ma un guardarsi e basta, non insieme ad altri…

Mi spiego meglio. Io ho sempre avuto dentro l’immagine di me come individuo in mezzo a della gente. Persone con le quali interagisci, di cui ti interessa il giudizio. Ho patito un sacco, all’inizio, per il giudizio. Grazie invece a questo progetto ho cominciato a guardarmi dentro e pensare solo a quello, a cosa sentivo, a cosa volevo dire senza preoccuparmi di tutto il contorno. E quindi ciò mi ha dato una grande forza. Da super timido sono diventato estremamente estroverso, espansivo, perché non ho più niente di cui vergognarmi.

Certo che questa timidezza con il punk cattivissimo…

Sì, ero il classico showman. Molto arrogante mentre suonavo e poi fuori da quel contesto mi guardavo le scarpe, quelle cose lì… Adesso sono diverso. Anche il suonare da solo fa sì che uno si sbrogli un po’, ecco.

Oggi sei un cantante folk?

Non lo so. Se per folk immaginiamo la musica intesa come folkloristica allora no.

Cos’è la musica folkloristica?

Mi viene in mente la musica tradizionale, del sud o del nord, qui in Italia. Poi c’è un’altra accezione che preferisco e appartiene al mondo americano, o canadese, dove io mi sento più a mio agio. Io lo chiamo folk di oltreoceano, ma non per fare quello strano.

Lo preferisci per un fatto di temi trattati? Di sonorità?

Per entrambe le cose. In questi contesti chitarre e voce diventano molto espressive e fanno magie.

Cosa è una canzone?

Per me una canzone è una fotografia di un momento, un momento mio, o un momento a cui io ho assistito e di cui offro un’interpretazione, e così diventa anche mio.

Ti senti quasi più un fotografo?

Sì, assolutamente.

Compreso il farsi maledettissimi selfie?

Certo, e quanti selfie che io inserisco nelle canzoni…

Ed è difficile farlo?

Diciamo che è difficile inizialmente. Io oggi non faccio più fatica, poi uno deve sempre confrontarsi con l’ispirazione che a volte c’è e a volte non c’è. E quando non c’è può essere davvero difficile.

È più facile raccontare l’altro?

Paradossalmente è più facile perché sei meno coinvolto e puoi anche inventarti qualcosa. Quando si racconta l’altro tu prendi una cosa non tua ma la confondi con le tue. Mischi tutto. Ciò che viene fuori è qualcosa che è un misto tra ciò a cui tu hai assistito, le tue di emozioni, ciò che hai percepito, e la storia di un’altra persona, tutto tradotto in una chiave che però parte da te e senti tua. Poi magari ci rivediamo fra un anno e scopro che sono un regista che si fa dei film allucinanti, non so… non credo però, dai.

Cos’è la musica, invece?

La musica per me… guarda sto per dire una cosa che ti sembrerà estremamente banale, perché il concetto forse è banale, ma è vero. Secondo me ogni tanto, anche e soprattutto ultimamente… credo ci sia una ricerca talmente affannosa dell’originale che si è dimenticato cosa è il bello. Noi cerchiamo ciò che ci sconvolge ma poi non riconosciamo più il bello. Ecco, per me la musica è l’espressione di quello che, in questo caso un musicista, ritiene bello. La voglia di dire delle cose senza preoccuparsi di altro.

Quando Roncea è diventato Roncea?

Nel 2010. Io prima venivo dall’esperienza di due band, che sono ancora attive, anche se entrambe stanno affrontando un periodo di calma, in cui sono cresciuto molto. Si tratta proprio di quelle esperienze dove esci dalla scuola e cominci a suonare con gli amici, cresci insieme, ascolti musica insieme, si scambiano dischi e libri… Poi ci sono determinate vicissitudini, fidanzate, impegni, obiettivi individuali. Io mi sento Roncea da quando ho avuto il coraggio di staccarmi da queste due band per qualcosa solo di mio, da fare da solo, dicendo quello che voglio come voglio.

Quale è tra i tuoi album quello che più preferisci?

Quello che sto facendo. Io nei miei dischi non sono mai pienamente soddisfatto, trovo sempre un suono, qualcosa, che non va. Adesso invece sto facendo un disco completamente diverso che ha un animo molto pop ma con degli arrangiamenti abbastanza ostici, diciamo così. È in italiano e con dei testi che trovo molto introspettivi… il contrario della trap, per intenderci. Più ascolto questo album e più sono contento di come sta venendo fuori. Questo è il disco che non vedo l’ora di far uscire perché ho proprio voglia di buttarlo fuori e vedere la reazione della gente. Sono molto, molto, contento.

Cosa significa mettersi in un quadrato davanti a qualcuno che ti ascolta?

Come ti dicevo ci sono stati due periodi. C’è stato un momento in cui avevo proprio paura del pubblico. Avevo la sensazione di essere costretto a fare qualcosa che doveva per forza piacere, e questa condizione faceva sì che mi sentissi in forte soggezione e che i miei concerti fossero in qualche modo vissuti in terza persona. E quindi mi sono concentrato anche molto sull’aspetto tecnico, perché comunque io sono molto precisino, ed ero focalizzato tutto sul non stonare, non sbagliare l’accordo, fare le dinamiche giuste…

È come fare una cover di sé stessi, forse…

Esatto, bravo. Hai reso bene l’idea. Ho passato un momento così… Adesso non ho più questo disagio. Ho passato i trent’anni, sono finiti i sogni di rock’n’roll e non me ne frega più un cazzo di dove la musica mi porta. Sono sempre felice di essere ovunque, andare a suonare anche dopo tre ore di auto, suonare. Magari lascio qualcosa a chi mi ascolta, magari no, e viceversa.  A me basta quello. Forse prima ero più ambizioso, forse ora sono più consapevole… Non so. Io faccio le mie cose, la musica è una cosa bella e voglio vivermela così.

Tornando al tuo nuovo disco, come ti sei trovato a scrivere in italiano dopo aver fatto solo album in inglese?

Io ho sempre scritto, a me piace la lingua italiana, non avevo mai pensato però all’italiano in chiave musicale. È stato un po’ spiazzante ascoltarmi all’inizio, ma ora credo che funzioni bene. Tutti mi dicono che la resa a livello interpretativo c’è e si sente. Senza la barriera della lingua inoltre chi ti ascolta recepisce immediatamente cosa dici, cosa vuoi davvero dire… è tutto molto più diretto.

La tua prima chitarra?

Io in realtà nasco come bassista. Ad un certo punto, come molti bassisti, sono passato alla chitarra che pensavo durasse pochi mesi e invece è ancora lì… anche se ad un certo punto si è demolita ma non l’ho buttata ed è diventata una lampada.

Tu hai fatto diversi tour, giri molto, anche fuori l’Italia. Cosa ti è rimasto di questi viaggi?

In due e tre anni ho girato molto. Francia, Spagna, Portogallo, Olanda, Regno Unito… A parte la figata cosmica di andare in giro, di fare esperienza, è stato molto bello vedere cosa è la musica all’estero.

Fuori, soprattutto in Francia, il musicista non è un rompiballe che suona e ti dà fastidio mentre bevi una birra ma è qualcuno che porta dell’arte. E questo ti fa sentire elevato. La seconda cosa, in Inghilterra tantissimo, il livello generale, musicalmente parlando, è elevatissimo. Lì si suona in generale, e questo suonare crea stimoli, voglia di migliorare e di coltivare un certo gusto musicale. L’ambiente può influenzare molto, e questo mi ha colpito. Poi magari tale percezione l’ho avuta perché venivo io da fuori, non so. Magari viene un’artista straniero in Italia e dice la stessa cosa.

Prova a dire una cosa che con la musica non c’entra nulla e una cosa di cui la musica non può fare a meno?

La musica non può fare a meno del pubblico. Alcuni artisti tendono a non considerare il pubblico ma la musica senza pubblico non esiste, ci vuole qualcuno che l’ascolti. Che non c’entra nulla con la musica… mi verrebbe da dire, purtroppo, tutto ciò che oggi gira attorno la musica. Per dire, ci sono sempre state le strategie di comunicazione nel mondo della musica, anche in passato, i Beatles vestivano in un determinato modo…  Però forse oggi si è andati oltre, la butto lì.

Qualcosa si è rotto o è una normale evoluzione delle cose?

Le cose si evolvono, e sicuramente è molto triste vedere chi non sa accettare il cambiamento dei tempi. Ora c’è la voglia di stupire, di sconvolgere, come ti dicevo prima, ma… ormai ne abbiamo viste di ogni ed è molto difficile stupire al giorno d’oggi.

Le ultime due domande che sono di rito. Che cosa è l’essenza e soprattutto l’essenza, in questo caso, di Roncea?

Sicuramente l’empatia e l’energia sono le due cose che mi aspetto di trovare sempre. L’empatia soprattutto è qualcosa di cruciale e credo che sia tutto lì lo scambio che avviene tra chi suona e chi ascolta. La mia essenza è il racconto, il dire chi sono. Magari vi ci ritrovate? Vi assomiglio? Ci capiamo? Magari no, magari sì.

A cosa brindiamo?

Alla bellezza, ti prego.

Essenza d'artista - Roncea

Essenza d'artista, foto di Giacomo Marighelli

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