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ZERO.40 | intervista a ANGELA BARALDI

Zero.40 è la nuova rubrica del Il silenzio del cantautore.

I conversatori si siedono in un angolo, all’interno del Korova milk bar, il tempo di bere una birra media: 0.40 cl.

Un piccolo viaggio fatto di parole per conoscere meglio gli artisti che hanno partecipato a questa rassegna.

Rubrica a cura di Carlo Casaburi.

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Angela Baraldi non ha bisogno di presentazioni. Sarebbe inutile descrivere una figura che tutti noi conosciamo sia come musicista che in vestiti diversi. Di lei mi ha colpito molto l’entusiasmo, la risata, la leggerezza che a volte sembra nascondere un lato più malinconico. Forse Angela è una figura costruita su due lati, come il disco di un album. Ad ogni modo, entrambi racchiudono ottima musica.

Canta con grande energia al Korova milk bar Ferrara e a fine concerto abbraccia e sorride a tutti quelli che si avvicinano per farle i complimenti. L’intervista avviene prima di tutto questo e comincia davanti al mio spritz e al suo bicchiere di vino. Siamo seduti.

Ciao.

Ciao.

Parliamo dell’inizio della tua carriera. Se non sbaglio torniamo indietro all’inizio degli anni ottanta e siamo nel circuito underground bolognese…

Sì, esatto. Ma più che un inizio di carriera è stato un inizio di imitazione dei miei idoli. Ho fatto un po’ di rodaggio, diciamo, forte anche del fatto che Bologna in quegli anni era una città molto attiva musicalmente e molto all’avanguardia. C’era inoltre una sorta di gemellaggio con New York grazie a diversi gruppi No Wave, l’ultima novità a livello musicale di quel periodo, che venivano da New York proprio per fare concerti. E io sono cresciuta in questa… non so come dire… mischia. Bologna in quegli anni era un po’ elitaria, se vogliamo, però era anche una città selvatica. E ho potuto buttarmi in questa mischia, una mischia confusa dove trovavi Skiantos, Gaznevada, Windopen… e altro ancora. Inoltre, le sale prove erano dentro le mura, il Paladozza era dentro le mura, tutto era dentro le mura. Bologna era un cortilone gigante pieno di concerti. Questa è stata una cosa che io pensavo sarebbe rimasta… e invece no.

E com’erano le tue emozioni all’epoca?

Molto belle. Avevo una visione scintillante del futuro, che sarebbe andato sempre meglio, almeno dal punto di vista della cultura e della musica. Mi dicevo: «se questo è l’inizio chissà come sarà dopo!».

Ero ignara del fatto che poi la vita non è così. È una visione che ha l’adolescente che crede che le cose che sta vivendo possano crescere insieme a te e invece si sono fermate. C’è stata la bomba alla stazione nell’80. Da lì in poi è entrata una coltre cupa nella città, e molta eroina…  La cultura si è un po’ assopita. Ma dal 77 agli 80 sono stati anni folgoranti, che mi hanno formata.

Hai avuto numerose collaborazioni, ne ricordi una con particolare piacere?

Beh, sicuramente quella con Lucio Dalla. Mi sembra scontato dirlo ma è stata la prima persona che ho incontrato così importante che mi ha messo subito alla prova. Lui aveva capito subito che ero una cantante. Mi stringe la mano e dice «tu sei una cantante!». Ho pensato «questo mi legge dentro». Avevo fatto dei cori per gli Stupid Set, nulla di più, ma io mi sentivo già una cantante e mi ha colpito che lui lo vedesse. Da lì si sono aperte molte porte che Lucio mi ha dato la possibilità di aprire con grande fiducia. Ho conosciuto discografici, artisti… e da un desiderio che portavo dentro di me mi sono sentita improvvisamente spiazzata perché mi è arrivato tutto in faccia. Poi questa amicizia è andata avanti negli anni. Intanto io ho fatto le mie cose, mi sono resa autonoma dalla sua figura così importante, questo ha permesso alla nostra amicizia di avere una seconda vita che andò oltre a quella del pigmalione e dell’allievo. Come genitori e figli abbiamo litigato tante volte e ci siamo ripresi…

Mi manca molto.

Penso sia una figura irripetibile nella storia della canzone italiana. Una persona che ha avuto molte vite, che ha ballato il tip-tap da bambino, e poi il jazz, poi Sanremo, e poi Roversi…  e quattro dischi importantissimi che hanno dato inizio alla sua poetica.

Cosa significa fare della musica la propria vita?

Dipende quando. Se vogliamo dare una risposta in generale è come essere degli atleti. Ti devi allenare ogni giorno, è molto stressante. Bisogna essere sempre preparati. Ti parlo soprattutto di adesso. Quando ho iniziato io c’era una discografia differente. Allora avere un contratto voleva dire sì sposare una multinazionale, è vero, ma significava anche avere il tempo di crescere. Ora invece è tutto più estremo. Da un certo punto di vista è più onesto, ance se crudo, e assomiglia di più alla realtà di oggi. O almeno così l’ho vissuta io.

Come inserisci nella tua vita di musicista l’esperienza con il cinema e soprattutto cosa ti ha lasciato?

Mah, molte belle cose. È un mestiere molto duro e difficile, forse più del musicista, ma mi ha dato la possibilità di conoscere altre persone, altri mondi, che mi hanno condizionato anche nella musica. Ho avuto il culo di lavorare con Salvatores che è un grande amante della musica, conoscitore e collezionista di vinili e di chitarre. Io l’ho vissuta come un’espansione di quello che già stavo facendo. Ho fatto Arti Drammatiche e quindi avevo già le coordinate, sapevo cosa voleva dire fare l’attrice poi, chiaramente, ho avuto tanta fortuna a farlo con un grande regista, questo sì.

Quando hai preso in mano la tua prima chitarra e cosa hai provato?

Era una chitarra classica che girava per casa, le manine facevano un po’ fatica perché la tastiera era dura… e poi l’istinto di spaccarla subito perché non mi lasciava cantare come volevo. Non sono mai riuscita a suonare e cantare insieme. Ho bisogno di tutto il corpo per cantare. Ho bisogno di esprimere la fisicità e se canto mentre suono lo faccio in maniera diversa. Non ho avuto un rapporto di amore con la chitarra, ti direi una cazzata. La chitarra l’ho usata per scrivere. Ma quando canto lo strumento mi frena.

Guardando indietro cosa è cambiato in te da quando hai iniziato ad oggi?

In realtà oggi mi sento più in sintonia rispetto ad un tempo con le cose. Mi sento di essere stata molto onesta e aver seguito la mia indole. Forse un tempo la vivevo come un limite perché la cantante e l’interprete femminile era vissuta in una maniera un po’ antiquata, si cercava il precedente. Mi dicevano «Patti Smith», ma in Italia significava fare del rock and roll ed era molto difficile. Ed era molto difficile parlare su questo piano con le case discografiche. Le figure rock di allora erano la Nannini, la Bertè, e tanto di cappello, ma lo step successivo… ecco, forse c’è riuscita Carmen Consoli qualche anno dopo… Non so. Io so solo che ho un po’ penato nel fare il primo disco. Si tendeva ad iperprodurre, a cercare il modello, mentre io avrei voluto fare qualcosa di più… non so, scarno.

E la tua esperienza teatrale?

Il teatro è la vera disciplina. Non ti concede di sbagliare, di berti un bicchiere come stiamo facendo noi adesso, di fare un’intervista. Mette alla prova la tua memoria e te stesso, sempre, ti devi preservare e preparare per il giorno dopo, l’intero giorno…

Ricordo quando ho fatto il monologo su Samuel Beckett di essermi dedicata solo a lui. Il teatro è rigore e rimarrà sempre così.

Alla fine, lascia substrati più spessi che ti danno sicurezza di salire sul palco. Dopo il teatro tutto sembra più facile.

Che cos’è l’arte?

È una cosa cangiante, non riesci a definirla. Ha molto a che fare con la parte anarchica che c’è in noi dove non ci sono guardiani. È un tempo senza spazio. Credo sia la nostra salvezza.

A questa domanda forse hai già risposto, a cosa pensi del mondo musicale di oggi e se è cambiato qualcosa rispetto al passato….

Sì, assolutamente. È cambiato il fatto che ora ti puoi autogestire di più. Poi hai un limite per ciò che riguarda i mezzi. Vi sono degli ostacoli oggi in più rispetto a prima. Quando ero una giovane cantante c’erano delle porte apertissime che oggi mi sognerei. Certo, la casa discografica ti veniva a chiedere il conto alla fine, ovviamente, dal punto di vista della resa. Ora mi diverto di più. Posso gestire la mia immagine come voglio, c’è meno controllo… forse questo periodo assomiglia di più a me. Devo ammetterlo, nonostante per una questione anagrafica io venga dal periodo precedente, mi sento più vicina alle cose come sono oggi.

Quali sono i sogni che hai realizzato e quali sono quelli da realizzare?

Ho fatto un film con un grande registra e suonato con un grande artista. Erano i miei sogni e sicuramente li ho realizzati. Mi ritengo quindi una persona molto fortunata.  Nel cassetto per ora non è rimasto nulla… vorrei forse che continuasse questa cosa, un ripetersi… ma in realtà continua. Io magicamente mi sono trovata nella condizione di realizzare le cose che volevo. Guardando il passato vedo qualcosa che mi è venuto incontro senza una regola. Sono fortunata.

Cosa ti spinge a scrivere un pezzo?

Ha che fare con l’inconsapevolezza. È un’operazione automatica che nasce, generalmente, da un malessere, dal voler cambiare una situazione… e nasce una scrittura inconsapevole. Così anche i dischi.

Quanto è difficile comunicare con la musica?

Non lo è, è molto facile. È il mezzo più potente per comunicare perché ti sbatte in faccia la cultura, ti schiaffeggia.

Esiste una canzone che ti assomiglia di più rispetto alle altre?

Io non ho un lato solo, faccio un po’ fatica a riconoscermi in una canzone sola. Sarebbe riduttivo. C’è una parte di me molto positiva e infantile, e una parte più cupa e pessimista, e non sono io padrona di decidere quando una prevale sull’altra. Penso a Mi vuoi bene o no, canzone che Giorgio Canali ha inserito anche nell’album Perle per porci, è la parte di me che a volte sbatto in faccia alla gente per comodo (ride), e invece ci sono dei lati dolenti che in questo disco che ho fatto, Tornano sempre, vengono fuori. Inoltre, questo disco è molto ferrarese perché le voci le ho fatte quasi tutte qui, a casa di Giorgio… ecco, Giorgio Canali è un po’ il fidanzato di questo disco.

Come è il tuo rapporto con il pubblico fuori e dentro il palco?

Io prima avevo molto timore del pubblico e del suo giudizio. Potrei dividere la mia vita in due fasi, la prima dove avevo paura del giudizio del pubblico e la seconda dove è avvenuta una liberazione da questo timore. La prima fase coincide con l’epoca delle multinazionali di cui ti dicevo e poi le cose sono cambiate, io sono cresciuta, sono più sicura di me, e cantando dal vivo con i CSI, con Zamboni, con Giorgio… ho rassodato una parte di me e ho capito che l’onestà del pubblico va rispettato con la propria onestà. Quindi mentre canti non puoi pensare se il pezzo piace o no ma devi pensare a farlo perché ne hai bisogno. Quando ho capito questa cosa ho sentito il pubblico più ricettivo.

Cosa non deve fare un’artista per smettere di essere sincero?

Non deve mai mettersi nella posizione di educare il suo pubblico. Ho poco trasporto verso quegli artisti che ti spiegano come è la storia, trovo che sia più onesto trovarsi in mezzo alla mischia e dare voce ad una prospettiva collettiva che poi è la tua perché tu diventi solo un amplificatore di quello che senti, che è un sentimento collettivo. Se non esci fuori da questa scia, da questa condivisione, c’è onestà anche nell’essere sgradevoli o contestati. Non bisogna mai sentirsi antagonisti del pubblico.

Diresti qualcosa al te bambina?

Mi sono fatto il viaggio di passare davanti alla ragazza che ero al liceo, seduta, di pensare chissà cosa vede nella me di oggi. Ecco, penso sarebbe soddisfatto, sarebbe contenta. Non le direi nulla. Ero più pessimista un tempo, forse la tirerei su quella ragazza.

Oggi suoni a Il silenzio del cantautore, è una rassegna di musica totalmente in acustico, senza alcuna amplificazione, al naturale per ricondurre il cantautore alla sua origine ed autenticità. Una ricerca dell’essenza, sia per chi suona che per chi ascolta. Secondo te in cosa consiste questa essenza, se è importante perché lo è, e soprattutto qual è “l’essenza” di Angela Baraldi?

(Qui ride davvero molto)

Non so, mi sento molto cangiante. Io ho bisogno sempre di cambiare, di essere dinamica. Mi dispiace quando una figura che amo artisticamente rimane in bacheca. Apprezzo molto Bob Dylan per questo, per la sua libertà e onestà. Non amo l’artista che trova la chiave e la mantiene. I miei idoli sono sempre crollati per poi risorgere. È dura dare una definizione di essenza, non si può. Come un profumo, non si può sapere sempre di prato tagliato. Bisogna cambiare e mi piace che sia così. Non vivo questo mestiere solo come una carriera ma è qualcosa di più. È una missione, anche terapeutica.

A cosa brindiamo?

A Bob che è in giro per l’Italia, agli amici, alla gioia e alla vita. È molto bello vivere.

essenza d'artista - stephen lawrie the telescopes

Essenza d'artista, foto di Giacomo Marighelli

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