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ZERO.40 | intervista a STEPHEN LAWRIE

Zero.40 è la nuova rubrica del Il silenzio del cantautore.

I conversatori si siedono in un angolo, all’interno del Korova milk bar, il tempo di bere una birra media: 0.40 cl.

Un piccolo viaggio fatto di parole per conoscere meglio gli artisti che hanno partecipato a questa rassegna.

Rubrica a cura di Carlo Casaburi.

Questa intervista è stata realizzata grazie al contributo di Giorgia Folin.

I The Telescopes sono una band (ma su questo verrò corretto) inglese formatasi nel 1987. All’attivo hanno un numero vastissimo di singoli e album. Il genere varia dall’English noise, allo space rock, al dream pop e alla musica psichedelica.

La formazione del gruppo subisce numerosi cambiamenti. Tutto ruota attorno alla figura dell’unico vero fondatore: Stephen Lawrie.

La cosa che più mi preoccupa all’inizio non è il non conoscere i The Telescopes, ma il fatto che dovrò intervistare Stephen in inglese. Sono terrorizzato. Fortunatamente riesco a convincere la mia ragazza, Giorgia, ad aiutarmi. Sarà lei ad intervistare Stephen e a dialogare con lui. Io interverrò ogni tanto, in un inglese maccheronico, coinvolto dalla discussione. Rimaniamo molto seduti al tavolino del Korova Milk Bar a parlare anche terminata l’intervista. È una persona piacevole. Ciò che più ci rimane impresso è la sua affabilità e capacità di parlare di tutto, dalla Brexit, all’importanza per un musicista a coinvolgersi socialmente, o scegliere di non farlo, perché la musica è un’altra cosa.

Stephen è accogliente, è come un amico che conosci da sempre. Risulta a tratti timido, e mentre parla mi ricordo di lui. Ci eravamo già visti, proprio a Ferrara. I The Telescopes vennero a suonare allo Zuni. Mi ricordo lui si gettò nel pubblico e cominciò a strisciare sotto le gambe dei presenti. Le casse del locale sembravano esplodere. Aveva i capelli corti allora.

L’intervista si svolge nel giardino interno del Korova. Stephen si accende una sigaretta.

Tu sei il fondatore dei The Telescopes, come si è creata la band?

In realtà non è andata proprio così. Mi sono immaginato io che fosse qualcosa di reale. Le persone hanno iniziato ad unirsi a me, andavano, venivano, ma non c’è mai stata una vera e propria line-up della band. I primi due album sono stati suonati quasi dalle stesse persone, e chi ci ascoltava ha pensato che avessimo iniziato come una band, ma non era così. Ci sono state persone diverse che hanno collaborato. La stampa si focalizzò su cinque persone e disse che la band si era formata nelle Midlands, quando solo un musicista veniva da lì…

Quindi si tratta solo di persone che hai incontrato e con cui hai deciso di suonare assieme?

È sempre stato tutto basato sul mio scrivere le canzoni, che è una cosa difficile. C’era chi voleva scrivere per i The Telescopes, e io incoraggiavo tutto ciò. Però fu una situazione intimidatoria… l’arrivare in una band dove sono state scritte venti canzoni e metterci del tuo.

Io ho suonato con Bridget Hayden. Abbiamo girato l’Italia facendo noise solo noi due, solo musica, nessun cantato.

Tutto cambia continuamente, così è la vita. Così anche le persone con cui suono.

Mi stupisce sempre che ci siano alcune band che si sciolgano perché non è più “come prima”.

Per me le cose, il continuo cambiare, l’uscire dalla confort zone, è ciò che mi fa andare avanti. Non devi essere spaventato dal cambiamento. È normale aver paura di cambiare, ma non in circostanze creative. Tornando alla tua domanda iniziale, a come è iniziato tutto… è iniziato dal disordine.

Da adolescente ho avuto dei brutti periodi, ed ebbi un’epifania: era una questione di vita o di morte, e per me la vita era la musica.

Però all’inizio ero molto spaventato. Vedi, gente come Neil Young, o David Bowie, sembrano di un altro pianeta, e cose come vivere in un piccolo villaggio, o in una piccola cittadina, l’andare a scuola, sono cose che sembra a loro non succedono… non mi rendevo conto che David Bowie fosse andato a scuola!

Poi è suonato un campanello, una sveglia nella mia testa e ho capito che dovevo fare musica.

Scrivevo delle poesie e stavo imparando a suonare la chitarra. Non avevo considerato di mettere le due cose insieme. Non ero arrivato al fatto che avrei potuto scrivere canzoni fino a quando la mia vita non ha cominciato ad andare di merda.

La musica continua ad avere questo ruolo nella tua vita? È rimasto un rifugio?

 

Sì, però è stata anche una grande ispirazione perché ho imparato molto dalla musica riguardo la vita. Mi ha insegnato la perseveranza, e il fatto che quando si incontra un muro non è davvero un ostacolo ma una nuova interessate opportunità.

Io mi spavento quando tutto sembra andare bene…  perché comincio ad essere soddisfatto e divento arrogante.

E poi, all’improvviso, tutto cambia. BANG! Non sai più cosa aspettarti, ci sono molte più sfaccettature delle cose che non avevi previsto…

Il tuo primo album si chiama Taste. Come ti sei sentito quando lo hai terminato?

Frustrato.

Cioè… orgoglioso ed eccitato, ma anche frustrato. Questo perché hai un’idea chiara di ciò che volevi, che doveva uscire, e siccome lavori con altre persone, ovviamente il risultato è diverso.

Inizialmente ero molto focalizzato su quello che volevo. Ciò mi disturbava, mi disturbava il vedere un progetto finito che non rispecchiasse quello che avevo immaginato. Ma poi, ho capito che accettare ciò poteva insegnarmi tanto. E così è stato. Adesso ad esempio, mi piace molto più improvvisare, il contributo esterno.

Non tutti erano sicuri del primo album…

Alcuni dei miei colleghi, amici del produttore, pensavano che fossimo solo dei ragazzini che unitisi in una stanza hanno cominciato a fare rumore, e invece il produttore sottolineò come fosse tutto scritto, progettato, strutturato.

Gli dissero: “come cazzo fa a scrivere ‘sta roba?!”

Ma per me è tutto molto naturale, lo scrivere così. Ci sono diversi suoni, non semplice confusione.

Riguardo ciò… il protagonista delle tue canzoni sembra essere il tuo suono peculiare. È forte, avvolgente, e allo stesso tempo la voce rimane calma e quasi distaccata…

Sì, non sempre, ma esiste questa dicotomia.

Ed è più una cosa per te stesso o per suscitare in chi ti ascolta una sensazione particolare?

Sì… più o meno. Trovi sempre qualcosa di affascinante nella musica, e hai voglia di condividerlo, specialmente se significa così tanto per te.

Io trovo una dualità anche nella vita, e quindi inconsciamente lo riporto nella musica.

È sempre difficile scrivere. Potrei scrivere canzoni più “semplici”, canzoni d’amore, ma la vita non è semplice. In qualche maniera può risultare semplice, ma è complessa nella sua semplicità.

E la cosa più elementare riesce ad essere anche la più profonda.

Se ho un’idea base per una canzone, e mi gira in testa, ma non mi piace ancor abbastanza per scriverla, allora ci lavoro sopra. Ma devi aspettare l’ispirazione, non puoi semplicemente sederti e manipolarla. Devi aspettare che diventi qualcosa di più. E poi qualcosa succede. Qualcosa avviene nella tua vita e pensi: “sì, questo è importante, si lega a quella canzone” e così ti porta da qualche altra parte. È come ci fossero diversi fili che si dirigono in diverse direzioni, ma appartengono e nascono dallo stesso gomitolo. E comincio a scrivere.

Quanto è importante conoscere nuove persone nel processo creativo?

È essenziale.

Qualcuno può dire qualcosa senza neanche pensarci, sovrappensiero, e ti si attacca addosso e non riesci a liberartene. Quel pensiero poi ti ritorna in mente e si trasforma in creatività. È come un avvoltoio che si avvicina sempre di più ad un animale per mangiarlo. Ci gira intorno, è un’ossessione.

Trovi difficile trasmettere le tue emozioni attraverso la musica?

C’è una specie di muro, ma si può provare ad abbatterlo.  Io e la band cerchiamo di unirci al pubblico. A volte ci mettiamo a suonare seduti per terra, in mezzo alla gente. Quando suoni in acustico è differente. Perché non sono come Bruce Springsteen, non ho molto di cui parlare, la protagonista deve essere la musica e non voglio stare tra lei e il pubblico. Non sono un performer, non sono Bono…

È tutto più intimo?

Sì, più o meno. Sono piuttosto timido, mi sento più a mio agio con la band, così posso nascondermi tra di loro (ride). Non credo le persone vengano a vedere me. Credo che chi mi ascolta senta la musica. Io ho solo un ruolo in questo, e spero poi vada tutto bene.

Cosa pensi del mondo della musica contemporanea? È cambiato nel tempo o è rimasto sostanzialmente lo stesso?

Alla fine per me quello che conta è quello che esce dalle casse.

La musica la senti oppure no.

Non importa ciò che il cantante dice, se non senti la musica: fine della storia.

Certo, è cambiato molto il modo in cui la musica viene distribuita, ma la musica è rimasta la stessa cosa: Gli uomini e le donne delle caverne sbattevano le cose e avevano appagamento in ciò, era liberatorio. È la stessa cosa per me.

Oggi suoni a Il silenzio del cantautore, è una rassegna di musica totalmente in acustico, senza alcuna amplificazione, al naturale per ricondurre il cantautore alla sua origine ed autenticità. Una ricerca dell’essenza, sia per chi suona che per chi ascolta. Secondo te in cosa consiste questa essenza, se è importante perché lo è, e soprattutto qual è “l’essenza” di Stephen Lawrie?

Per me è solo quello che faccio. La maggior parte delle persone sentono solo quello che c’è sul cd, ciò che è registrato, percussioni, arrangiamenti… è raro riuscire ad ascoltare l’essenza di una canzone.

E quello che fai in acustico è quello. Ed è pauroso, intimidatorio, e hai voglia di scappare via… ed è una bella sensazione poi rimanere e non fuggire.

 

A cosa brindiamo?

Al falò delle vanità.

Cheers

 

Cheers.

 

essenza d'artista - stephen lawrie the telescopes

Essenza d'artista, foto di Giacomo Marighelli

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