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ZERO.40 | intervista a AMAURY CAMBUZAT

Zero.40 è la nuova rubrica del Il silenzio del cantautore.

I conversatori si siedono in un angolo, all’interno del Korova milk bar, il tempo di bere una birra media: 0.40 cl.

Un piccolo viaggio fatto di parole per conoscere meglio gli artisti che hanno partecipato a questa rassegna.

Rubrica a cura di Carlo Casaburi.

Amaury Cambuzat è un musicista gentile che insegue ancora il sogno di quando era un ragazzo di 14 anni. Dice di essere invecchiato ma non ha smesso di ampliare i suoi orizzonti per scoprire nuove cose, compreso parti di sé. Crede nel cambiamento e nel valore del condividere una storia.

Parla un perfetto italiano, ora vive in Italia, ed è spesso in tour.

Fonda gli Ulan Bator nel 1993, che diventano una parte della sua vita.
Dal 1996 collabora con la formazione dei tedeschi Faust che lo arricchiscono ulteriormente.

La sua discografia colleziona un ampio consenso di pubblico e critica.
Ci sediamo all’aperto.

Parliamo del tuo primo approccio al mondo della musica. Quando è stata la prima volta che hai abbracciato una chitarra e cosa hai provato?

Il mio primo strumento non è stata la chitarra ma il pianoforte. Ho iniziato da piccolo, quello che da noi al conservatorio chiamano “il giardino musicale”. Ho studiato pianoforte per circa undici anni. È uno strumento complesso così, per fare un gruppo rock e avere più libertà, decisi di prendere in mano la chitarra intorno ai dodici anni ma sono autodidatta, completamente.

Come si chiamava il tuo primo gruppo rock, quello con cui hai iniziato a suonare?

Il primo gruppo si chiamava DDS, un gruppo influenzato dai primi Cure, Joy Division. Si ascoltava quello a Parigi all’epoca…

 

Quando hai capito che nella vita dovevi diventare un musicista e quanto e stato difficile questo percorso?

Mi ricordo che già da piccolo, quando studiavo pianoforte, sapevo già, o almeno sentivo, che avrei avuto a che fare con la musica. Preferivo occuparmi di più del pianoforte piuttosto che della scuola. Però la decisione è avvenuta dopo con il secondo album. Avevo un lavoro fisso, lavoravo tutti i giorni, e decisi di mollare tutto, nel 1997.

Mi dissi: faccio questo. E mi sono buttato.

Non è stato difficile.

Fare il musicista non è più difficile che andare in fabbrica, dipende dalle esigenze di chiunque.

Parlami degli Ulan Bator. Cosa ti ha regalato formare questo gruppo, anche a livello emotivo, e come, se è successo, ti ha cambiato.

 

È stato il mio inizio carriera, una fortissima impronta. L’inizio ha segnato tantissimo la mia vita musicale. Nel tempo ho deciso di sperimentare, provare strumenti nuovi… ma gli Ulan Bator sono stati l’inizio della mia vita come artista e sono così legati alla mia vita, anche personale, che non potrei eliminare gli Ulan Bator senza uccidere anche una parte di me.

Come si inserisce in questo contesto l’esperienza con i Chaos Physique?

 

La mia idea di definire la scienza delle situazioni caotiche, una scienza di soluzione caotiche…

Sono partito da un’idea un po’ matta, filosofica, dadaista.

Avevo voglia di una forma di libertà nuova, fuori dalle aspettative mie e del pubblico.

Grazie ai due dichi usciti in questa fase sono riuscito ad uscire da un momento di stallo e ripartire di nuovo con gli Ulan Bator. È stata un’esperienza che mi ha permesso di ritrovare una parte di me che forse stavo perdendo.

 

Oggi Amaury Cambuzat è una persona diversa rispetto a quando ha iniziato o è lo stesso individuo?

Sono invecchiato un casino (ride) ma sono sempre l’adolescente con lo stesso sogno. Il sogno che avevo a 14 anni è ancora lì e prendendo strade diverse lo sto realizzando.

La cosa che più mi importa oggi è spingere le mie frontiere oltre, ampliare i miei orizzonti, affrontare cose nuove, e collaborare con persone che mi piacciono.

Tu hai collaborato con diversi artisti, quale è l’esperienza che senti ti abbia più arricchito?

Ti dico subito con i Faust. Ho imparato tantissimo da loro. Mi ha cambiato come musicista e come persona. Ho mollato il mio concetto che mi legava all’ambiente cittadino, parigino, avvicinandomi alla natura. Mi hanno dato un conforto interiore dando valore a cose che non vedevo. Mi hanno arricchito. La musica che riuscivo a fare con loro è di una purezza che non riesco a fare altrove.

 

Con chi ti piacerebbe suonare potendo far rivivere un artista del passato?

 

David Bowie. Mi sarebbe piaciuto confrontarmi e imparare da lui. Una persona brillante nel mondo pop. Assolutamente.

 

Cosa pensi significhi essere un musicista e fare musica?

È una scelta, non è una competizione. Non invidio gli altri, faccio quello che mi pare, amo suonare e ovunque anche con dieci persone davanti. Non posso suonare sempre, ovviamente, perché è un lavoro ed esiste un aspetto economico, ma non è assolutamente il mio obiettivo. Io amo quello che faccio ed esiste un lato spirituale in tutto questo. Non so spiegartelo in modo differente, è una missione. Vado in giro e mi piace l’idea di mostrare che credo in qualcosa. È un modo di affermare una diversità, la mia diversità. La musica, l’arte in generale, è un mezzo per valorizzare la diversità.

 

Quanto è importante la sperimentazione nel mondo musicale e cosa bisogna fare per tenere sempre aperti i propri orizzonti?

Io penso che tutti nella vita sperimentiamo. Nella musica ma anche nella vita.

 

Cosa pensi del panorama musicale attuale? È cambiato nel tempo o è rimasto sostanzialmente lo stesso?

È come nella società, vi è una scissione più grande tra i ricchi e i poveri. Nella musica è la stessa cosa, c’è chi ha i contratti giusti e chi fa fatica. Vedo molte difficoltà per i musicisti in generale in questo periodo. Esiste forse anche un danno culturale, esistono molte persone in più che non sanno cos’è un concerto.

 

Parlaci di The Sorcerer e della sonorizzazione del film “Tabù” di Murnau. Come è nato questo progetto.

The Sorcener è il disco che ho fatto, una colonna sonora. Molti anni fa ho partecipato ad un grosso festival a Lussemburgo, un cine concerto. Ho voluto ripetere questa bella esperienza e provare a fare un disco da solo. È da qui che è partita l’idea. Mi ha colpito molto la fotografia di questo film e ho deciso di partire da qui.

 

Se potessi tornare indietro diresti qualcosa al tuo io bambino?

È complicato. Io da bambino ho fatto delle cose che mi hanno portato ad essere famoso per altri motivi. Ero conosciuto, e questo mi ha spinto a cercare di essere riconosciuto più che conosciuto. Sono cose differenti. Chissà… forse avrei dovuto fare il contrario per avere un sacco di soldi (ride). È una battuta, il percorso che desideravo è questo.

Trovi difficile trasmettere le tue emozioni attraverso la musica?

Molto. Canto nella mia lingua per questo, quasi sempre. A volte uso l’inglese quando non voglio essere elaborato. Cerco di usare la mia lingua perché spero che arrivi qualcosa, perché per me è più facile. Ma è comunque molto difficile far arrivare qualcosa. Forse non sono bravo nel far tacere un gruppo molto ampio di persone, ed è anche interessante vedere quando questo, invece, avviene.

Quale è il tuo rapporto con il palco? Come ti senti mentre stai suonando e che emozioni provi con le persone che sono fuori dal palco?

 

A volte non ci penso più ed è brutto. Dipende dalle situazioni, dalla stanchezza, dalle persone. Il mio è pur sempre un mestiere e ciò ti porta a volte a non pensare e farlo più meccanicamente.

Non so se ho la dimensione dello spettacolo, cerco di non mettere filtri.

Oggi suoni a Il silenzio del cantautore, è una rassegna di musica totalmente in acustico, senza alcuna amplificazione, al naturale per ricondurre il cantautore alla sua origine ed autenticità. Una ricerca dell’essenza, sia per chi suona che per chi ascolta. Secondo te in cosa consiste questa essenza, se è importante perché lo è, e soprattutto qual è “l’essenza” di Amaury Cambuzat?

L’essenza appartiene alle cose molto antiche, alla capacità di trasmettere qualcosa attraverso quello che hai, che può essere una bottiglia o schioccare le dita. Raccontare una storia. Nel mio caso… penso che a volte sia difficile fare ciò che si vuole, chiedere il massimo silenzio delle persone, comunicare. Mi è capitato a Firenze, in una casa privata. Quando avviene questa comunione nasce questa cosa in mezzo, molto astratta, che possiamo chiamare amore, forse l’unica cosa che conta. Forse è questo. È difficile, ma se il pubblico ha curiosità e chi suona la generosità di raccontare, nasce qualcosa.

A cosa brindiamo?

 

All’Italia che cambia.

essenza d'artista - stephen lawrie the telescopes

Essenza d'artista, foto di Giacomo Marighelli

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